lunedì 1 luglio 2013

DAL SUPRAMONTE AI LOCALI NOTTURNI DI MILANO (14/06/2013)

Di Piero Mannironi.

«Non lo avevo mai sentito così affannato. "Angelo, vieni subito a casa, ho bisogno di te" mi disse Francis al telefono con il tono di chi vuole una cosa immediatamente e non è disposto a discutere». Comincia così il racconto di Angelo Epaminonda, detto il Tebano, malavitoso catanese alla corte di Francis Turatello, boss indiscusso della mala milanese. Angiolino il Tebano lascia di corsa la bisca che dirige per conto di Faccia d'Angelo e corre nella casa del capo, in via Garofalo, tra la stazione centrale e Piazzale Loreto. Quando entra si accorge che Turatello non è solo. «Lo conosci?» gli chiede sorridendo Francis. «Come no! - gli risponde Epaminonda - La sua faccia è su tutti i giornali».

Quell'uomo è Graziano Mesina. Da alcuni giorni il re del Supramonte è fuggito dal carcere di Lecce. Con lui altri dieci detenuti, tra i quali Martino Zichitella e Giuseppe Sofia dei Nuclei armati proletari.
La cosa più difficile in un'evasione non è forse riuscire a uscire dal carcere, ma restare liberi. Sapere cioè dove andare, avere dei punti di riferimento, delle complicità e delle protezioni. Ecco perché all'interno della galera è importante la diplomazia, la capacità di costruire rapporti e amicizie. Certe solidarietà possono poi diventare preziose nei momenti difficili. Graziano Mesina queste cose le ha sempre sapute molto bene. Le sentiva, per lui era un istinto.
Con Turatello dietro le sbarre era nata così un'amicizia. Lui, il bandito del Supramonte e Faccia d'Angelo il re delle bische e della prostituzione milanese, si erano subito intesi. «Quando evadi sai dove andare» gli aveva detto Turatello. E Mesina lo aveva preso in parola.
«Francis disse che bisognava rimetterlo in sesto - raccontò Epaminonda -, rivestirlo, ripulirlo, renderlo presentabile. Sembrava appena sceso dalle montagne di Orgosolo: non si lavava da giorni, era vestito in modo indecente, ma ci guardava fiero come a dire: io non ho bisogno di voi, me la so cavare sempre e comunque».
«Prima di tutto procuragli un parrucchino - disse Turatello -, perché con quella testa pelata lo riconoscono a un chilometro di distanza. Poi fallo divertire un po'».
Mesina cominciò così la sua vita milanese all'ombra del boss Turatello. Abitava a Sesto San Giovanni, in casa di Pippo l'Agrigentino, un duro della banda. Erano quelli gli anni in cui "Faccia d'Angelo" stava concludendo la sua scalata al vertice della malavita milanese. Certo, all'orizzonte cominciava a profilarsi la figura sulfurea di Renato Vallanzasca, il selvaggio re delle rapine della Comasina. Turatello lo considerava un teppista, un violento, ma anche un uomo smodatamente ambizioso che avrebbe potuto dargli fastidio. Come poi infatti accadde. E allora Milano si trasformò in un mattatoio.
La sera del 27 novembre del 1976 Francis convocò i suoi nella bisca di Corso Sempione. «Stasera abbiamo da fare - disse -: andiamo al Brera Bridge Club e lo rapiniamo. Ripuliamo tutti come si deve, così imparano».
Il problema era semplice: Turatello voleva avere in mano tutte le case da gioco della città e quelli del Brera resistevano, non si piegavano. Ecco allora la decisione: bisognava dargli una lezione. Il gruppo era composto da Turatello, Epaminonda, Turi Mingiardi, Pippo l’Agrigentino, Gianni Scupola e Mesina. Almeno questo è quello che raccontò il Tebano. Erano tutti armati: fucili a canne mozze e pistole.
Per entrare pensarono di usare come cavallo di Troia un tale Mario Belli, detto il Barone, un giocatore conosciutissimo a Milano che aveva perso una fortuna al tavolo del poker e al chemin de fer. Belli fece però resistenza: aveva paura. Allora Turatello e suoi si rivolsero a Giorgio Camerano, uno che si atteggiava a personaggio della Milano bene. Anche lui, come Belli, cominciò a fare storie. Allora, a sorpresa, intervenne Mesina che guardando Cameranocon occhi di fuoco sibilò: «Senti, o tu fai aprire la porta di quel club oppure io ti lego le mani e i piedi e ti butto nel fiume».
Nel racconto del blitz al Brera Bridge Club, Angelo Epaminonda parla di un Graziano Mesina deciso, affidabile, ma anche un po’ naif, forse incapace di capire fino in fondo la filosofia di quei criminali metropolitani. Entrarono in cinque. Scupola, l’unico del gruppo che non era latitante, restò al volante di una Bmw. Più che una rapina, Turatello voleva che quell’incursione fosse una dimostrazione di potenza, un esercizio muscolare per intimidire. Tutti quei clienti della Milano bene dovevano capire che il club sarebbe diventato suo o avrebbe chiuso i battenti. E infatti Turatello, dopo aver colpito violentemente al volto il proprietario del locale, saltò su un tavolo e urlò: «Visto cosa capita a chi viene a giocare in un posto dove si fanno le rapine? Forse vi conviene andare a giocare in Corso Sempione. Lì di rapine non se ne fanno».
Mesina era incantato, non aveva mai visto tante pellicce. E il Tebano gli disse: «Ti piacciono eh, Graziano? Valgono almeno 15-20 milioni l’una. Sono pieni di soldi questi cornuti». «Allora ce le portiamo via» rispose l’orgolese.
Dopo aver bevuto champagne, tenendo tutti gli avventori sotto tiro, il gruppo si ritirò. Epaminonda raccontò che dovette convincere Mesina a non portare via le pellicce. Allora Grazianeddu si riempì le tasche di banconote. Salirono tutti sulle auto meno Mesina che si fermò a parlare con il parcheggiatore.
Racconta Epaminonda: «Aprii il finestrino per sentire cosa gli stesse dicendo e raccolsi solo l’ultima frase: “tieni, in fondo anche tu sei un lavoratore” e gli allungò una manciata di banconote da 10mila lire».
Graziano Mesina fu arrestato qualche mese dopo, il 17 marzo 1977, a Caldonazzo, in provincia di Trento.

(Da "La nuova Sardegna")

Nessun commento:

Posta un commento

Qualsiasi commento anonimo o riportante link NON sarà pubblicato

Any anonymous or linked comments will NOT be published